Contestazioni: No, grazie

Rita Vittori

Non lo sapevamo ma bisogna imparare a non fare contestazioni, cioè non proclamare il proprio dissenso verso le autorità… soprattutto durante le manifestazioni. È cosa risaputa: molto spesso le Istituzioni formali della democrazia non tollerano chi la pensa diversamente, soprattutto chi mette in evidenza l’incoerenza tra le scelte politiche e le dichiarazioni verbali di cui è piena la retorica in piazza.

Assistiamo in questo periodo a una crescente intolleranza nei confronti delle manifestazioni del dissenso politico e del conflitto sociale: la repressione, spesso definita come «prevenzione», viene fatta in nome della «sicurezza». In nome di una politica sulla «sicurezza» (cara a tutti i cittadini che entrano in piazza per un corteo) nella più recente evoluzione si arriva a criminalizzare anche soggetti che manifestano il loro dissenso in uno spazio pubblico.

Alcuni esempi

Purtroppo, l’elenco delle manifestazioni autorizzate in cui si nega l’accesso nelle piazze a spezzoni di società civile perché definiti «antagonisti», e per prevenire contestazioni, si fa sempre più lungo. Non è certamente frutto solo di questi ultimi mesi in cui siamo governati da una coalizione di destra, ma, diciamo, sta aumentando il numero di queste situazioni.

L’ultimo esempio è quanto successo a Palermo. Qui, in occasione del 31esimo anniversario della strage di Capaci, la Questura aveva previsto il passaggio solo del corteo organizzato dalla Fondazione Falcone, mentre aveva limitato percorso e orari a un corteo organizzato dal Coordinamento 23 maggio, formato anche da CGIL, Anpi, Agende Rosse e Associazione Peppino Impastato. Durante il corteo però (secondo la ricostruzione della CGIL di Palermo su «il Fatto Quotidiano» del 25 maggio 2023) sono state comunicate nuove disposizioni, secondo le quali il tragitto di questo ultimo doveva interrompersi prima di quanto concordato.

Sono intercorse delle trattative tra gli organizzatori del contro-corteo e i funzionari della Questura di Palermo per dare l’opportunità di raggiungere l’albero di Falcone in via Notarbartolo. Ma i manifestanti hanno trovato lo sbarramento delle forze di Polizia e Carabinieri in tenuta antisommossa e da lì è cominciato l’incontro-scontro…

Analoghi episodi sono avvenuti anche a Torino: nel corteo del 1° maggio 2022 (come era avvenuto anche negli anni precedenti) lo spezzone sociale del corteo non ha potuto raggiungere Piazza San Carlo perché definito «pericoloso», con cariche di polizia e manganellate.

Contestazioni

Foto di Enzo Gargano

Oppure durante la fiaccolata del 24 aprile 2023 dove c’è stata una provocazione da parte di un gruppo dei Radicali con le bandiere della NATO a cui hanno risposto con slogan attivisti dei centri sociali e collettivi studenteschi. Beh, la polizia ha caricato e manganellato questi ultimi, definiti sulla stampa «antagonisti», invece di isolare i provocatori.

Non solo una parte i cittadini è preoccupata per questo tipo di repressione del dissenso politico nelle piazze, ma come denuncia anche Amnesty International il diritto di «protesta» nel nostro paese è in via di estinzione. Ne sono vittime movimenti come i NO TAV, Extinction Rebellion, i Fridays for Future, gli attivisti dei centri sociali, descritti come «nemici della società». In pratica tutti quei movimenti che cercano di portare alla ribalta la crisi climatica ed ecologica, di cui i governi parlano spesso senza atti coerenti con il problema.

Creare un nemico interno

Per poter operare queste repressioni con l’appoggio dell’opinione pubblica occorre convincerla della necessità di reazioni «forti» per difendere, come fa ogni «buon padre», la sicurezza di tutti. Non possiamo dimenticare ciò che la psicoanalisi (in particolare Melanie Klein) ci dice sull’importanza dello sviluppo della personalità: la percezione di un pericolo (soprattutto riguardante la sopravvivenza come individuo, come gruppo, come popolo) riattiva processi mentali primordiali, che dividono gli altri esseri umani in amici e nemici. Gli amici devono essere protetti, i nemici devono essere eliminati.

Quindi quale migliore tecnica se non trasformare i famosi «antagonisti», quelli che per il potere costituito rappresentano una minaccia, perché mettono in evidenza la propria incapacità o i veri interessi o significati delle scelte politiche fatte, in «terroristi» e «violenti»?

Certo ci vuole tempo per costruire socialmente la figura del nemico. Una volta definito, il «nemico» va contenuto, tenuto a distanza e, se non basta, combattuto. Annientato no, perché, una volta creata questa figura simbolica e attribuita a vari gruppi sociali, la si tira fuori dal cappello nei momenti opportuni per «distrarre» i cittadini che in questo modo accettano scelte politiche impopolari.

Oltre a un nemico esterno (in questo caso la Russia e la Cina) abbiamo bisogno di nemici interni, verso cui indirizzare l’aggressività scaturita da una società in cui la forbice tra ricchi e poveri sta diventando sempre più ampia.

Contribuisce a questa codificazione il linguaggio usato dalle varie testate giornalistiche che forgiano gli articoli in modo da mettere in evidenza solo alcune parti degli eventi, le immagini passate nelle varie tv in cui sono scelti frammenti dove i tafferugli sono già iniziati cosicché gli attacchi della Polizia sembrino una legittima difesa.

Anche i social alimentano la polarizzazione tra le parti a causa del linguaggio usato dai vari account (veri e falsi che siano) spesso acceso, offensivo e zeppo di insulti reciproci.

Sappiamo che questa logica porta a scontri ideologici sempre più ampi. Per evitare che questi solchi diventino sempre più profondi abbiamo tutti la responsabilità di mantenerci fuori da questo modo di affrontare i problemi e restituire un tipo di lettura degli eventi dove la complessità sia compresa e non negata. È un piccolo primo passo, piccolo forse, ma se non si fa il primo altri passi non potranno vedere la luce.


 

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