Energia nucleare pulita: una chimera tecnologica

Enzo Ferrara

Il miraggio dell’energia nucleare pulita attraverso la fusione nucleare: na chimera tecnologica perseguita da decenni senza alcuna prova di realizzabilità

Sui temi dell’energia nucleare pulita – gettati ad arte sul tavolo di discussione e sistematicamente ripresi dai media in modo confuso – un approfondimento è opportuno, per verificare l’effettiva situazione e chi siano i protagonisti dei presunti sviluppi scientifici e tecnologici.

In questi giorni si esalta sui giornali un esperimento condotto nei laboratori del Centro per l’Energia da Fusione di Culham, nell’Oxfordshire (UK), dove dal 1982 sono in corso esperimenti condotti dal consorzio Joint European Torus (JET) che impegna migliaia di ricercatori europei per portare a fusione nucleare isotopi dell’idrogeno (deutero e trizio) in condizioni di gas ionizzato (plasma) controllato da campi magnetici. Secondo le notizie diffuse, lo scorso 21 dicembre 2021, usando una miscela di deutero e trizio un esperimento del JET ha prodotto 59 mega-Joule di energia dopo un impulso di 5 secondi, superando il precedente record del 1997 record di 21.7 mega-Joule.

Diversamente dall’enfasi sul record della quantità assoluta di energia prodotta durante il test, scarse informazioni sono fornite sul bilancio energetico Q, che confronta l’energia prodotta Eocon quella spesa Ei, durante l’intero processo: Q = Eo/Ei. Secondo la rivista Nature l’esperimento JET ha raggiunto un valore di Q = 0.3: in sostanza, è stato erogato un terzo dell’energia spesa. Fino a che Q non supera il valore di 1, si sta parlando di aria fritta in termini di reale utilizzo dell’energia da fusione. E quando anche si superasse questa soglia bisognerebbe verificare la sicurezza del sistema, la capacità dei materiali di reggere temperature e correnti elettromagnetiche mai prima sperimentate sulla superficie terrestre – se non durante le esplosioni degli ordigni nucleari.

Per fare un paragone, sempre Nature spiega che sono stati necessari impulsi di plasma da 500 MW con un picco di 1000 MW. Poiché la rete elettrica locale non permette di ottenere più di 575 MW, è stato necessario costruire e affiancare al laboratorio due turbine aggiuntive dal peso di 775 tonnellate, ognuna con una capacità di potenza massima di 3.75 GJ, all’incirca la stessa quantità di energia cinetica che spinge un treno di 5,000 tonnellate alla velocità di 140 km/h. Ogni turbina assorbe nel tempo una potenza di 8.8 MW per immagazzinare energia, e può poi generare, per una durata molto più breve, energia pari a 400 MW.

Dove sono i grandi vantaggi prospettati e perché sarebbe sostenibile una spesa di 60milioni di euro annui per questa impresa “utopistica” che darà “forse” i suoi primi frutti (Q > 1) nel 2050 e non invece per lo sviluppo di altre fonti di energia?

In sostanza, a 38 anni dalla sua fondazione, e 25 anni dopo un precedente esperimento, il JET ha raddoppiato la propria capacità di produzione di energia: un fallimento epocale se confrontato con i progressi in ogni altro campo della produzione energetica, con capacità decuplicate nel corso dello stesso tempo dai sistemi di produzione fotovoltaica ed eolica, o con i progressi già disponibile per la riduzione del consumo di energia grazie all’utilizzo di materiali innovativi (materiali magnetici nano-strutturati, o isolanti, o a magnetoresistenza gigante, o con capacità di coibentazione superiori). Perché dunque si insiste con questa ricerca?

Similmente, a inizio settembre 2021 Eni ha vantato “un primo passo concreto verso l’industrializzazione del processo di fusione a confinamento magnetico (…) lo stesso processo che sta alla base della generazione di energia nel Sole e nelle stelle”. L’annuncio arriva dagli?Usa dove il Commonwealth Fusion System (spin off del Massachusetts Institute of Technology – MIT), di cui Eni è principale azionista, ha condotto un test con elettromagneti alimentati in condizioni di superconduttività a temperature superiori allo zero assoluto. Sono state così create – dicono – le condizioni per confinare il plasma nei futuri reattori a fusione.

Le notizie disponibili provengono dagli stessi autori dell’esperimento. Non ci sono pubblicazioni o altri documenti scientifici, se non di tipo teorico, che abbiano già superato le procedure di verifica della sperimentazione. In sostanza, afferma Eni, elettromagneti costituiti da ossidi di Terre Rare, bario e rame portati alla temperatura di – 253 °C (20 gradi sopra lo zero assoluto) e alimentati da 40.000 Ampère di corrente elettrica avrebbero prodotto un campo magnetico di 20 Tesla: una forza magnetica enorme, mai raggiunta prima, che permetterebbe il controllo degli elementi allo stato di plasma (gas ionizzato) a temperature elevatissime, necessarie per la fusione nucleare.

Non si specifica volutamente né la durata nel tempo né il volume del campo magnetico. Sarebbe stato comunque raggiunto un traguardo fondamentale “nel percorso per la realizzazione di un reattore a fusione sperimentale più compatto, semplice ed efficiente” in confronto a quelli che – si suppone – dovrebbero impiegare superconduttori tradizionali a bassa temperatura.

In pratica, grazie a questo esperimento, si è fatto certamente un “balzo in avanti” ma al solo livello delle supposizioni di realizzabilità degli impianti a fusione, trascurando ogni considerazione sui costi e la fragilità di un circuito in cui devono transitare 40.000 Ampère, senza interruzioni che metterebbero a rischio il processo, l’impianto e l’ambiente limitrofo.

Non è questo però il peggiore aspetto di questo tipo di scienza costosissima – persa in un “mostruoso miscuglio di rigore nelle minuzie e d’indifferenza per l’insieme”, come recita un passaggio dell’Uomo senza qualità di Robert Musil – e poco trasparente per necessità. Infatti, il legame con il nucleare bellico fa sempre capolino. Negli USA il National Ignition Facility – NIF, istituto di studi sulla fusione nucleare, ha annunciato lo scorso 8 agosto di aver eseguito un esperimento nel corso del quale si sarebbe sviluppata – per un’infima frazione di secondo – la potenza energetica di un milione di miliardi di Watt (1015 W), lasciando accesa l’onerosissima speranza (350 milioni di dollari l’anno) che si possa davvero con un impianto a fusione produrre più energia di quanta se ne consumi.

Le turbine additive dell’esperimento JET citato in apertura sono del tipo tipicamente usato dalla Nasa e dai centri di ricerca nucleare ma per la difesa militare USA. Non è secondario che il NIF nacque sì per sviluppare modalità di controllo delle reazioni di fusione, ma delle bombe termonucleari. Quando gli USA aderirono al trattato di non proliferazione, che dal 1992 proibisce anche i test atomici sotterranei, questo centro di ricerca entrò a far parte di una lunga schiera di istituzioni “scientifiche” dedite a verificare l’affidabilità dell’arsenale nucleare a stelle e strisce senza possibilità di svolgere esperimenti “sul campo”. La procedura utilizzata (Nature 597, 9 settembre 2021, 163) ha amplificato e focalizzato l’impulso di fotoni generati da 192 raggi laser UV convergenti su un cilindro d’oro delle dimensioni di un temperamatite.

All’interno di questo, a temperature bassissime, erano conservati minuscoli pezzetti dei due isotopi dell’idrogeno: deuterio e trizio, in fase solida. Sul cilindro dorato si sono abbattuti 1.9 Mega Joule di energia, creando – per la durata di 4 miliardesimi di secondo – temperature e pressioni che si hanno solo nei nuclei stellari o durante l’esplosione delle bombe termonucleari. In queste condizioni, gli isotopi dell’idrogeno si sono effettivamente fusi generando nuclei di elio e irradiando neutroni, radiazioni elettromagnetiche e calore in quantità proporzionale alla massa trasformata, come previsto da Einstein.

L’obiettivo per scopi civili è di scatenare una cascata di particelle e amplificare il processo di fusione fino a che questo non riesca ad autosostenersi. I dati confermano che quell’esperimento ha stabilito un record fornendo energia da fusione pari al 70 % di quella impiegata per l’intero processo (Q = 0.7). Siamo comunque ancora lontanissimi dal superamento della parità ad almeno il 100 % della resa (Q = 1), ma questo non è un problema perché il vero scopo era comprendere l’innesco di fusione delle armi nucleari e fino a dove ci si possa spingere con l’energia impiegata.

Anche in questo caso sono utili considerazioni aggiuntive su costi e tempi del progetto. Già prima della fase sperimentale molti scienziati, compresi i favorevoli al nucleare, hanno sollevato dubbi. La costruzione del NIF, avviata nel 1997 e conclusa dieci anni dopo, ha comportato uno sforamento di 2,4 miliardi di dollari. L’obiettivo di raggiungimento della fusione con i laser era previsto per il 2012. È stato necessario un decennio in più per ottimizzare il materiale-bersaglio, focalizzare meglio i fasci laser e perfezionare il rilevamento dati. Ora i risultati – anche questi ancora non riconosciuti formalmente dalla comunità scientifica – sono accolti con favore. Si tratta di un esito decine di volte migliore di quanto prima realizzato.

Indipendentemente dalla possibilità di raggiungere la fusione, i dati raccolti costituiscono un tesoro informativo unico non ottenibile diversamente se non con altre esplosioni nucleari. Per di più, si tratta di osservazioni dirette e non di calcoli astratti eseguiti – come accade dal 1992 – da computer super-potenti capaci di estrapolare correlazioni da ogni minimo particolare. Il vero obiettivo, tuttavia, continua a essere il rafforzamento delle conoscenze sull’arsenale nucleare e sui suoi possibili sviluppi.

In sostanza, l’esperimento del NIF serve a rendere meno incerto l’uso delle bombe atomiche e a garantire che queste esplodano nel momento “giusto” – un aggettivo privo qui di senso etico e che va inteso come “previsto”. La prossima sfida per i ricercatori del NIF consisterà nel ripetere l’esperimento per ottenere gli stessi risultati dell’8 agosto. Così saranno maggiormente confidenti negli sviluppi sempre teoricamente possibili della fusione nucleare per usi civili, e contemporaneamente anche più certi della capacità delle bombe atomiche di riprodurre esattamente e ovunque la stessa identica quantità di devastazione e morte, non solo in teoria.


Il testo riprende anche interventi precedenti dell’autore apparsi su Città Nuova. Articolo di Enzo Ferrara


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