UNITED #FromHatetoHope con Ivana Nikolic

Benedetta Pisani

La campagna UNITED #FromHatetoHope prosegue con successo e continua a coinvolgere sempre più attivist* da tutto il mondo, uniti dal desiderio di attuare una trasformazione nonviolenta della società e diffondere messaggi di speranza contro l’odio e le discriminazioni.

Questa settimana, il nostro contributo alla campagna racchiude in sé tradizione e trasformazione, Memoria personale e collettiva. Abbiamo intervistato Ivana Nikolic, artista italiana rom di origini serbo-bosniache e attivista per i diritti umani, che un anno fa ha intrapreso un nuovo progetto audio-digitale per continuare la sua missione anche in tempi di restrizioni sociali.

Il suo podcast, +Rom -Rum (su Instagram, Non Chiamateci Zingare), è un luogo virtuale scoppiettante, abitato da un’ampia varietà di voci autorevoli, rom e gagè (termine che nella nella lingua romanì indica “il non essere rom o meglio il non appartenere alla dimensione romanì”). Con la dedizione e l’ironia che la contraddistinguono,Ivana ha dato vita auno spazio accogliente e divertente, ricco di stimoli culturali, in cui vengono approfondite con cura alcune delle tematiche che compongono l’universo del femminismo intersezionale.

Nella semplicità delle cose penso che la pandemia abbia costituito lo stimolo principale alla mia creatività, al mio bisogno di comunicare, di continuare sì a fare l’artista, ma anche l’attivista. Quindi ho deciso di far sentire la voce della mia comunità, rom e sinti, ma non solo, perché un* attivista combatte per qualunque forma di discriminazione, non le sceglie per categoria. E quindi mi sono chiesta come poter arrivare alle persone, creare un confronto, magari anche uno scontro, perché il raccontarsi può comportare anche questo.

Ero indecisa su quali piattaforme utilizzare, anche perché prima della pandemia non usavo i social così tanto. Poi ho realizzato che se volevo far sopravvivere la mia parte artistica dovevo iniziare a raccontarmi, esibirmi… E anche adattarmi alla realtà virtuale, che ormai fa parte di noi. Tra l’altro, mi ero appena trasferita in Germania, da un mese o due, e il mio lavoro in quel periodo è stato tutto online. Però sono dell’idea che, come per ogni cosa, siamo noi a scegliere come utilizzare i social e cosa raccontare. I miei interessi sono i diritti umani, l’arte, la mia storia, la mia comunità.

Ho iniziato a pubblicare contenuti su TikTok, Instagram, Facebook, e vorrei anche aprirmi un canale Youtube, dove pubblicare video di una durata massima di tre minuti. Il mio ragazzo poi mi ha parlato dei podcast, e io per un mese ho studiato come funzionano, ne ho ascoltati e ne ascolto ancora tantissimi, sui diritti umani, sull’attivismo, sulla storia… Ho deciso, quindi, di iniziare a registrare i miei podcast, in cui approfondire alcune tematiche in compagnia di molti ospiti.

“Entrambe utilizziamo parecchio il sarcasmo, in maniera diversa. Io lo vedo prima di tutto come sintomo di intelligenza, e mi piace molto riscontrare questo tipo di sintonia… e poi trovo che sia il metodo migliore per far arrivare un messaggio. Nel tuo caso specifico il tuo messaggio è antidiscriminatorio e coinvolgente in tutti i sensi. Chiaramente mi pongo poi una domanda, che è quella che pongo anche a te: dietro l’ironia, c’è anche una necessità/volontà di autotutelarsi?”

Certo, c’è questo in parte. C’è anche la volontà di scherzare su me stessa, perché è talmente tanta la consapevolezza che ho di me e della mia identità, che mi diverto io in primis. Poi dall’altra parte, l’ironia può servire a mettere un po’ a disagio gli altri, per tastare il terreno, per provocare le persone. Perché con il sarcasmo puoi fare delle battute a cui la gente ride, ma sotto sotto stai lanciando dei messaggi fortissimi, e attraverso la reazione che hanno le persone ti rendi conto se sono effettivamente open minded oppure no.

Ne ho parlato nel podcast con Abdul… quando fai autoironia su di te, a livello di discriminazione e razziale, alcuni ridono a crepapelle. Allora lì capisci che queste persone hanno un certo tipo di background. Invece altre persone si imbarazzano, non osano a ridere perché magari pensano di offendere. È bellissimo, dopo un convegno con altri amici attivisti, rimanere insieme e fare un po’ di black humor… Ci prendiamo in giro a vicenda, è veramente fantastico.

“In che modo la danza ti ha aiutata nel tuo lavoro di attivista ed educatrice?”

Sono un’educatrice, ma la danza per me è fondamentale, ho sempre ballato durante il mio percorso. Quando avevo 20 anni, non accettavo di essere rom, lo nascondevo, me ne vergognavo. A 18 anni ho fatto il mio “coming-out etnico”, dopo aver visitato i campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau. Dopo quell’esperienza, ho deciso di dirlo a tutti. La danza mi ha aiutata a esprimerlo, a accettarlo completamente, a esserne orgogliosa, perché l’arte rom è fantastica, l’arte rom ha dato tantissimo a tutto il mondo. Il flamenco nasce dai Rom, come tantissimi altri stili di danza, come la pizzica e la tarantella, che ovviamente poi si fondono e cambiano nel tempo: per ogni cosa c’è l’incontro e la mescolanza. Anche le prime ballerine di danza del ventre erano Rom.

Il mondo della danza è fantastico, e si fonda su basi culturali e storici. Le danze rom hanno diversi stili che cambiano a seconda di dove i Rom e i Sinti si sono insediati. Per esempio, la Rusca Roma, le danze rom della Russia, il flamenco, il ?o?ek in Bosnia, o il Manele… sono stili completamente diversi e cambiano, anche a causa della fusione con la cultura dei Paesi di insediamento. E, nella maggior parte dei casi, la gente non sa che anche alcuni generi musicali, come il jazz manouche, sono di origine rom.

Anche la lingua è il risultato di una ricca mescolanza. Negli ultimi anni, si è creato uno standard “basico” della lingua Rom, però ovviamente sono tanti i dialetti e le pronunce, perchè anche lì dipende dal Paese di insediamento: c’è un prendere e un dare anche a livello linguistico. Poi, tra l’altro, la lingua Rom è patrimonio dell’UNESCO da due o tre anni, perché è una delle più antiche al mondo.

Purtroppo, però, le nuove generazioni stanno perdendo completamente l’identità rom, la lingua, la storia, la cultura. Talvolta, purtroppo, un Rom che non è consapevole di se stesso, della sua storia, della sua cultura, non sa neanche che le nostre origini sono in India. E vive nello stereotipo dell’essere Rom, rimane incastrato nella categoria dello zingaro. E d’altra parte è difficile uscire da questa scatola perchè, quando ci provi, gli altri faranno di tutto per etichettarti e rimetterti “al tuo posto”.

Non voglio mettere una distanza tra me e voi, però con tutta l’empatia che potete avere, non potrete mai totalmente capire chi è straniero, anche se nato e cresciuto in Italia… come si sente realmente quando viene discriminato, quanto sia emozionante ottenere la cittadinanza italiana. Il sistema burocratico e politico italiano è davvero pesante…

“Volevo collegarmi a quando hai parlato prima della tua visita al campo di Auschwitz. Dicevi nel podcast quanto ti abbia colpita trovarti in quel luogo e vivere in qualche modo delle sensazioni anche a livello fisico: ti trovavi lì e tutto il resto non esisteva più. Nella puntata dicevi che l’Italia non ha ancora riconosciuto lo sterminio Rom come realmente avvenuto, e tutto questo mi ha fatto pensare. Vorrei concentrarmi su questa questione… penso che sia fondamentale parlarne perchè la storia purtroppo spesso si ripete.”

Vi racconto la mia storia personale. Mia madre è musulmana e mio padre è ortodosso, e durante la guerra dei Balcani la mia famiglia ha avuto tanti problemi proprio perché mista. Mio padre è stato costretto al fronte e poi è scappato, perché si rifiutava di uccidere famiglie musulmane. Delle persone buone, nonostante tutto, sia lui che mamma. Al confine tra la Croazia e la Serbia, a Vukovar, eravamo gli unici musulmani. La gente lì aggrediva mia mamma. A un certo punto ci siamo dovuti nascondere per due settimane nella cantina di una signora, come Anna Frank. Poi, a un certo punto, questa signora ci ha detto “Scappate, scappate, non è più tempo per voi, perché questa volta non vi hanno preso, ma non so la prossima”. Quindi abbiamo preso il primo autobus, e andiamo in Germania, dove era scappato mio padre. Abbiamo vissuto lì per quasi un anno.

Nel frattempo, scopriamo che i genitori di mia madre erano ancora vivi. In quel momento l’unico obiettivo era stare insieme. Decidiamo di intraprendere un viaggio illegale per arrivare in Italia – avevamo lo status di rifugiati e non potevamo lasciare la Germania. I miei genitori nascosti nel portabagagli e io e mio fratello sotto le gonne di zia e nonna. Una volta arrivati in Italia, abbiamo vissuto nei campi per 4 o 5 anni. È una vita di merda, degradante. La gente dice che “gli zingari vogliono vivere nel campo”, ma la realtà è che l’Italia è l’unico paese ad avere una legge ad hoc per regolamentare i campi che non rispetta la Costituzione e i diritti umani.

Questa non è la nostra cultura, ma è il riflesso degli stereotipi della società che non ci vuole e crea l’etichetta dello zingaro. Non fa parte della cultura rom l’essere nomade, la diaspora è un concetto totalmente diverso.

Nei campi facciamo l’elemosina perché viviamo nel degrado, così come avviene anche altrove, tipo a Scampia. Ci siamo scontrati molte volte con la polizia… ho dei ricordi assurdi di cose che bruciano e donne che urlano. Quando è finita la guerra in Jugoslavia, la Serbia non ci ha dato uno status perché la mamma è musulmana, e nemmeno la Bosnia perché io sono serba come mio papà. Siamo rimasti senza uno status e non eravamo nemmeno apolidi, perché anche in quel caso c’è una procedura. Così non siamo niente, senza nome e cognome, in un campo con il filo spinato da cui vedi le persone ma gli altri non vedono te.

Ogni generazione di donne, fino alla mia, ha sempre vissuto una guerra o una diaspora. La generazione delle mie cugine ha messo uno stop a questa dinamica. C’è un termine greco che adoro che è deina, dal greco deinós, cioè la stupefacente capacità degli uomini di essere terribili e allo stesso tempo meravigliosi, di costruire e di distruggere… Non so cosa voglia dire essere “un vero rom”, ma per me significa resilienza, cadere e rialzarsi, voglia di vivere e sorridere, non dimenticare e rendere il dolore parte di te, trasformarlo e raccontarlo in qualche modo, tramite l’arte, ad esempio.

Quando scoprono che sono rom, molte persone mi dicono: “Ah che bello, anch’io vorrei essere rom!” e questo mi fa incazzare perchè se sei veramente rom ti vivi la merda e non solo la bellezza. L’immaginario gipsy è fatto di stereotipi positivi, ma quando ti trovi concretamente una rom accanto, sposti la borsa. In America, il termine gipsy non è negativo, qua in Europa si.

La parola “zingaro” vuol dire schiavo, infatti in Europa le persone di etnia rom sono state schiave. Gli ultimi schiavi rom risalgono a meno di cent’anni fa, in Romania. Una volta, in Francia, si avvicinano due tipi che usano il termine zingari e io decido di spiegargli perché non bisogna usare quel termine. Dopo un’ora la ragazza mi fa: “Ma io non capisco perché ti senti offesa, io sarei orgogliosa di essere chiamata zingara”. Se non sei veramente rom, non puoi comprendere quanto faccia male, anche se ti vesti da hippie con le gonne gipsy. Rom significa human. Io adoro Martin Luther King, lui non ha mai usato la violenza e ha detto che la lotta parte dalle parole. Quindi se vogliamo il cambiamento dobbiamo insegnare e condividere le parole giuste.

Autrice Benedetta Pisani


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